Il Canada introdurrà una tassa sul carbonio, innescando un possibile boom per l’economia Canadese


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Il primo ministro canadese, Justin Trudeau, ha annunciato l’attuazione di una carbon-tax a partire dal 2019. Questa iniziativa è in linea con l’impegno assunto nel 2015. Il Canada, parte dell’accordo di Parigi, si è impegnato a ridurre l’inquinamento da carbonio del 30% al di sotto dei livelli del 2005 entro il 2030. Prima dell’introduzione della tassa sul carbonio, tuttavia, le misure previste per la riduzione delle emissioni erano giudicate altamente insufficienti, destinate a raggiungere solo una riduzione del 4% rispetto ai livelli di inquinamento di carbonio del 2005 entro il 2030.
Come conseguenza dell’introduzione della carbon tax in tutto il paese, il prezzo dell’energia aumenterà.
La benzina, ad esempio, raggiungerà un aumento del prezzo dell’8% nel 2022. Il prezzo del carbone, invece, dovrebbe più che raddoppiare. Il Canada, tuttavia, già utilizza ampiamente le energie rinnovabili, circa il 60% del proprio fabbisogno di energia è prodotto grazie all’idroelettrico. Solo il 20-25% dell’energia proviene dai combustibili fossili, quindi il settore energetico non sarebbe il più colpito dalle nuove misure. È, infatti, il settore industriale il responsabile di circa il 40% dell’inquinamento da carbonio del Canada.
Il governo ha capito che coprire i costi causati dai cambiamenti climatici è molto più costoso, soprattutto considerando i costi per danni alla salute e alle proprietà causati da eventi meteorologici estremi.
Come affermato in un articolo sul Guardian, si stima che, poiché l’ammontare della tassa sarà distribuito alla provincia che l’ha generato e il 90% delle entrate sarà restituito ai contribuenti per mezzo di sconti, l’aumento del costo energetico sarà più che compensato dagli sconti per il 70% delle famiglie canadesi.
Gli studi dicono che questo approccio può stimolare l’economia in quando il reddito disponibile aumenta.
Alcune province canadesi in passato hanno già adottato sistemi di tassazione sul carbonio e il governo si è reso conto che esse sono le stesse regioni che raggiungono i migliori risultati del PIL.

5 facts sullo stato dell’inquinamento dell’aria nell’UE


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Gli esperti sostengono che non viene prestata sufficiente attenzione allo stato dell’aria nell’UE. La Corte dei conti Europea ha pubblicato una relazione che evidenzia alcuni fatti allarmanti sulla situazione attuale. I risultati sono stati riassunti in un articolo apparso sul META, il canale di informazione dell’Ufficio Europeo dell’ambiente.
1° fatto: i sistemi di valutazione dell’aria non hanno gli stessi criteri in diversi paesi.
Gli indici di qualità differiscono da un paese all’altro, quindi lo stesso livello di inquinamento può essere considerato molto negativo in un paese e accettabile in un altro.
2 ° fatto: alcune stazioni di monitoraggio stanno chiudendo.
In alcune città in cui in passato è stata registrata una cattiva qualità dell’aria, ora semplicemente non c’è più alcun controllo poiché le stazioni di monitoraggio hanno interrotto la loro attività.
3 ° fatto: solo 4 paesi su 28 rispettavano i limiti per NO2, SO2 e PM nel 2016.
I revisori hanno indicato la necessità di spingere le procedure di infrazione contro i paesi che non sono conformi al diritto dell’UE. L’applicazione delle sanzioni è spesso lunga e non porta a cambiamenti significativi.
4 ° punto: è necessario concentrarsi maggiormente sulle fonti di inquinamento atmosferico.
Le fonti di inquinamento sono varie ma il rapporto evidenzia che gli impianti piu’ inquinanti, ad esempio, beneficiano di piani transitori che garantiscono loro il permesso di inquinare di piu’ rispetto ai livelli stabiliti.
5 ° punto: i limiti attuali di inquinamento atmosferico risalgono a 15-20 anni fa e devono essere adattati alle ultime raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità.
I suggerimenti del rapporto si concentrano sull’assicurazione dell’applicazione dei regolamenti esistenti, sull’armonizzazione dei valori limite della qualità dell’aria e sul monitoraggio dei criteri di localizzazione delle stazioni di monitoraggio da un paese all’altro.

Il mercato globale dei green bond verso il ritorno a una solida crescita dopo il periodo estivo


Le obbligazioni verdi mirano a finanziare progetti ambientali che possono variare dall’efficienza energetica alla prevenzione dell’inquinamento, dai trasporti sostenibili allo sviluppo di tecnologie rispettose dell’ambiente o alla conservazione degli ecosistemi.
Affinché un bond sia “verde”, il progetto finanziato deve essere in linea con la Climate Bond Taxonomy, con l’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2.
2 sistemi internazionali assicurano la trasparenza e l’integrità del mercato: Green Bond Principles e Climate Bonds Standard. Entrambi i sistemi definiscono i criteri per la certificazione di un legame come “verdi”.
Quello dei green bond è un settore in rapida espansione che promuove la lotta al cambiamento climatico e soluzioni finanziarie sostenibili, le previsioni dicono raggiungerà $185 miliardi di emesso nel 2018, una crescita di circa il 20% rispetto ai livelli del 2017.
Il settore ha registrato un’enorme incremento, considerando che l’importo emesso nel 2012 era di circa 2,6 miliardi di $.
Il mercato dei bond verdi ha registrato un record già lo scorso anno, raggiungendo un aumento del 20% rispetto al 2017. Le previsioni di SEB, una delle principali banche scandinave, riporta un articolo su BusinessGreen, indicano un possibile nuovo record nel 2018.
L’estate 2018 ha mostrato un rallentamento del trend, ma gli analisti affermano che cio’ rifletteva la situazione del mercato obbligazionario globale, e non il settore specifico degli investimenti alternativi.

Un sistema di tassazione del carbonio e dividendi potrebbe aprire l’era dell’indipendenza energetica pulita


Si torna a parlare di Carbon tax e carbon dividend. Lo fa The Guardian mettendo in luce come una tassa a monte sulle fonti energetiche ad alto tasso di inquinamento ed una sua ridistribuzione a valle potrebbe favorire l’economia cosiddetta Main Street (l’economia delle famiglie e delle piccole imprese). Agire sul clima, dice The Guardian, è molto più importante della salute della nostra economia energetica in generale. Il cambiamento climatico è la principale minaccia per le economie sviluppate, un acceleratore dei conflitti armati e una delle principali cause di migrazione di massa. I suoi effetti intensificano e prolungano le tempeste, la siccità, gli incendi e le inondazioni, con il risultato che negli Stati Uniti si è speso più per la gestione delle catastrofi nel 2017 che nei tre decenni precedenti, dal 1980 al 2010. Il Fondo Monetario Internazionale ha messo in guardia le nazioni che dipendono pesantemente dai combustibili fossili. Sovvenzionare con soldi pubblici le economie che sono molto dipendenti da questo tipo di fonte energetica sta mettendo a rischio la loro solvibilità futura. Allo stesso tempo la rapida espansione dei bond verdi, sta rendendo evidente come grandi investitori e banche siano interessati allo sviluppo della cosiddetta Clean Economy. Il finanziamento intelligente e sostenibile, spiega il quotidiano britannico, dovrebbe essere lo standard per gli attori del settore pubblico e privato a tutti i livelli entro 10 o 20 anni. Gli ex segretari del tesoro repubblicani James Baker e George Shultz hanno chiesto una strategia per il carbon dividend. E questa scelta potrebbe apportare miglioramento e trasparenza nel mercato. Anche con la produzione record di petrolio e gas, gli Stati Uniti dipendono ancora pesantemente da regimi stranieri che manipolano l’offerta e minano l’efficienza dei sistemi economici. 

Trasformare la CO2 in roccia? Oggi è possibile grazie al progetto CarbFix


Un’innovativa tecnologia per limitare la presenza di CO2 nell’atmosfera arriva dall’Islanda, grazie al progetto CarbFix.  La società Reykjavík Energy, in collaborazione con il Centro nazionale francese per la ricerca scientifica, l’Università dell’Islanda e la Columbia University, ha sviluppato un metodo per trasformare in modo efficiente ed efficace la CO2 in roccia. Questo processo è infatti in grado di catturare l’anidride carbonica presente nell’atmosfera, iniettarla nella profondità del terreno e farla diventare roccia, grazie ad alcuni processi chimici che impediscono alla CO2 di rientrare nell’atmosfera. Nonostante il processo necessiti di una notevole quantità d’acqua, i promotori dell’iniziativa si dicono fiduciosi sullo sviluppo futuro e sulla crescente sostenibilità di questa tecnologia, anche su scala mondiale. I dati registrati lo scorso anno, infatti, hanno confermato il successo di questa tecnologia, grazie alle 10 mila tonnellate di CO2, pari a quelle emesse da 2.000 auto, che sono state trasformate in roccia. 

Plastica: ecco il nuovo studio sull’inquinamento degli oceani


È sempre più allarmante l’emergenza plastica negli oceani, lo dimostra lo studio condotto dall’Alfred Wegener Institute, Helmholtz Center for Polar and Marine Research (Germania), che ha analizzato la presenza di microplastiche nei ghiacci del Mar Glaciale Artico e ha dichiarato che i livelli di inquinamento marino non hanno mai raggiunto concentrazioni così elevante come oggi. I campioni di ghiaccio provenienti da cinque diverse zone sono risultati infatti contenere più di 12 mila particelle di microplastiche per litro di ghiaccio marino che, a loro volta, provengono da sei tipi di materiali: polietilene e polipropilene (usati per imballaggi), vernici (delle navi), nylon (delle reti da pesca), poliestere e acetato di cellulosa (principalmente utilizzato nella produzione di filtri per sigarette). Questi risultati hanno sottolineato anche che più della metà delle particelle di microplastiche intrappolate nel ghiaccio misurano meno di un ventesimo di millimetro e, dunque, possono essere facilmente ingerite da microrganismi come i ciliati o i copepodi, mettendo a rischio la vita marina e, in definitiva, quella degli esseri umani.

La strategia anti-plastica dell’UE: 100% riciclo entro il 2030


La Commissione europea dichiara guerra alla plastica. Il nuovo piano per il riciclo totale degli imballaggi in plastica entro il 2030 comprende un’etichettatura più chiara per distinguere polimeri compostabili e biodegradabili,regole per la raccolta differenziata sulle imbarcazioni e il trattamento dei rifiuti nei porti. La strategia ha lo scopo di ridurre i 25 milioni di tonnellate l’anno di rifiuti da plastica prodotti in Europa, aumentando il ricorso al riciclo e al riuso, oggi fermo al 30% del totale. Attualmente una quota significativa di questa percentuale finisce per essere trattata in mercati terzi, come la Cina, che ha pero’ annunciato un giro di vite sull’importazione di rifiuti in plastica. Entro il 2030 tutti gli imballaggi in plastica immessi sul mercato Ue dovranno essere progettati per essere riutilizzabili e riciclabili. Per raggiungere il target la Commissione intende rivedere i requisiti legislativi per l’immissione degli imballaggi sul mercato. Si prevedono nuovi finanziamenti a sostegno di questa strategia e saranno soprattutto su ricerca e sviluppo, con 100 milioni di euro fino al 2020. Le microplastiche utilizzate intenzionalmente andranno verso il divieto totale, mentre sono ancora allo studio misure per ridurre quelle involontarie, come le particelle di gomma da usura dei pneumatici o i residui di poliestere e nylon rilasciati nelle acque di lavaggio.

Global Risks Report WEF: il grande rischio climatico


Eventi climatici estremi (tifoni, ondate di calore, inondazioni), disastri naturali, collasso degli ecosistemi con perdita della biodiversità, incapacità umana di mitigare gli impatti del surriscaldamento globale: i rischi ambientali sono quelli che preoccupano maggiormente. E’ quanto emerso per il secondo anno consecutivo dal Global Risks Report, pubblicato dal World Economic Forum in occasione dello scorso meeting a Davos. Interessante notare com’è cambiata la percezione del rischio negli ultimi dieci anni: nel periodo 2008-2010 l’economia e la geopolitica erano le incognite che dominavano la scena. Al contrario, dal 2011 in poi, i temi ambientali hanno guadagnato le prime posizioni, con un picco di preoccupazione registrato nel biennio 2017-2018. I cambiamenti climatici, in definitiva, stanno modificando le strategie di risk-management nelle grandi aziende e nelle istituzioni pubbliche-private in tutto il mondo. Molte utility energetiche, in particolare, sono consapevoli che in pochi anni potrebbero perdere ingenti profitti a causa delle infrastrutture obsolete e non più remunerative, come le centrali a carbone. Di conseguenza, il cosiddetto “carbon risk”, il rischio finanziario associato all’inquinamento globale e alle emissioni di CO2, sta entrando sempre di più nelle decisioni d’investimento di banche, governi e gestori di fondi.